Una storia per la liberazione

 

Proposta di rilettura del passato e del presente

Una storia per la liberazione 

Pubblichiamo alcune parti della presentazione, scritta dal compagno Dario Paccino, del libro «La teppa all’assalto del cielo» sulla Comune di Parigi, che propone un metodo critico di rilettura degli avvenimenti storici passati e presenti, rispetto all’uso che, in ogni tempo e sotto tutte le bandiere, il potere ha fatto della Storia.
Chi può dar l’assalto al cielo, se non la teppa? I potenti ci vivono abitualmente nel cielo, quello della politica, da dove non è possibile sentir battere un solo cuore umano. Ma non è questo il cielo cui mira la teppa. Nel cielo cui vuole arrivare non c’è posto per il terrorismo esercitato dal padrone per rubare plusvalore, mercificare la natura, valorizzare il capitale con la guerra e lo sterminio: un cielo che gli intellettuali, ingrassati dal padrone, definiscono utopia, come per dire che non esiste, e non può esistere, mentre in realtà si va configurando sempre più come la sola area dove la vita abbia garanzia di continuare e l’uomo dev’essere felice.
Come stupirsi che la teppa, così stando le cose, abbia finito. col dare dello scemo all’intellettuale? Metterlo in water e tirar l’acqua, è quanto si può fare di lui, che poi è sempre lo stesso, vesta la redingote o le brache da sciatore, sostenga che non si deve commettere l’eccesso di giustiziare quella delle brioches, o seppellire il capitalismo.
Esempio particolarmente sìgnificativo di che cosa sia la teppa da un lato, e l’intellettuale e il suo padrone dall’altro, è la Comune di Parigi, indicata dai cervelloni del tempo (anche i più progressisti) come intollerabile esplosione di delinquenza e teppismo, da estinguere come ben ha fatto Thiers: col genocidio. Tanta è la sostanziale identità di linguaggio e comportamenti dei «razionali» dell’epoca e dei nostri, che si ha l’impressione di ritrovarsi, scorrendo questa cronaca redatta giorno dopo giorno, nel pieno dell’odierna razionalità, capace di conciliare il socialismo, sacrifici, bomba a neutroni. Non è colpa vostra, vi assicuriamo, se «La teppa all’assalto del cielo» sembra proiettato sullo sfondo della classe che ci governa e degli intellettuali che ci erudiscono sulla democrazia.
Quasi sempre la storia scritta ha il marchio del potere; concetto espresso da Chesneaux con queste parole: «Attraverso i rapporti specifici di ogni società, le classi dominanti hanno quasi sempre affidato lo studio del passato a professionisti o quasi: preti e monaci, burocrati, archivisti, uomini politici esclusi dal potere, ricchi oziosi, insegnanti. A parte rari storici ’franchi tiratori’ o militanti, nella linea di Buonarroti, storico di Babeuf, e di Lissagaray, storico della Comune di Parigi, il sapere storico viene fatto proprio da una minoranza in connivenza con la classe dominante, ne accetta i valori ideologici, e grosso modo conduce la stessa vita comoda: dallo scriba egiziano allo storico sovietico, passando attraverso lo storico liberale, ‘di sinistra’. Ma non è solo per (questo che, generalmente, nei libri di storia c’è il marchio del potere. Può esserci, anche se lo storico abbia letto Brecht, e si sia proposto di tener conto ‘delle famose «domande d’un lettore operaio»: Tebe dalle Sette
‘Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Sono stati re a strascicarli, quei blocchi di pietra? Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettanto la riedificò? In quali case di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori? Dove andavano, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è piena di archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide, la notte che il mare la inghiotti, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi. Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sè nemmeno un cuoco? Filippo di Spagna pianse, quando la flotta gli fu affondata. Nessun altro pianse? Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi, oltre lui, l’ha vinta? Una vittoria ogni pagina. Chi cucinò la cena della Vittoria? Ogni dieci anni un grand’uomo. Chi ne pagò le spese? Tante vicende, tante domande.» Personalmente ricordiamo d’aver visto com’è stata introdotta nelle Tombe dei Ming la presenza delle masse cinesi.
ricordiamo *
Quelle tombe-museo hanno cessato di essere monumenti faraonici asetticì rispetto al «passivo» storico rappresentato dalle sofferenze delle masse, che pagano per i «grandi». Si rievocano le lotte popolari, si calcola quante case si sarebbero potute costruire con i soldi delle tombe. Non per questo l’insegnamento della storia in Cina ha finito di essere strumento di potere. Basti visitare, per convincersene, il Museo di Canton della storia della rivoluzione cinese. È come sfogliare la Bibbia, salvo che in questo caso il Cristo (Mao) non muore in croce, ma dà subito il regno dei cieli ai buoni.
La nostra visita al museo di Canton risale al ’73. Pensiamo che ora sarà cambiato qualcosa: vi sarà probabilmente una foto di Mao e Hua Kuo-feng, colti nel momento in cui il primo dice al secondo «ti affido il paese, difendilo contro mia moglie e la sua banda; tu solo puoi continuare la mia opera; e si vedrà, pensiamo, il mausoleo di Tien An Men in una grande foto (un’intera parete) col vecchio timoniere imbalsamato.
“Ma anche se non hanno saputo espropriare il nemico, travolgerlo col terrore prima di cader vittima del suo terrore, saldare potere militare e politico, i comunardi hanno dato veramente, secondo l’espressione di Marx, l’assalto al cielo; e “non per un ideale, chè il proletariato non ha di queste ubbre; ma per estirpare il .vecchio (il capitalismo) perchè finalmente sorgesse il nuovo (il socialismo); per porre fine, in altri termini, allo sfruttamento (e conseguentemente alla repressione, alla guerra, alla devastazione dell’uomo e della natura), e dare inizio alla storia umana, una storia di.liberi e‘ di uguali, per i quali le risorse sono di tutti (non solo uomini, ma anche piante e animali, tutti indispensabili alla continuazione della vita sulla Terra). Forse che la cosa ha meno valore perchè l’assalto è fallito? Se metro di misura fosse questo (il fallimento), che dovremmo dire del capitalismo, che, con tutto lo strapotere che ha, non ce la fa più a mandare avanti il mondo, e progetta perciò una guerra atomica con la stessa disperazione di chi vede nel suicidio l’unico modo per risolvere i propri problemi umani? Oh si (non occorrevano per questo i così detti nouveaux philosophes più vecchi di Matusalemme) sappiamo che il marcio non sta solo nell’amletico regno di Danimarca, ma anche in quello oggi contraddistinto da falce e martello. Ma intanto bisognerebbe stabilire che cosa si nasconda sotto quel simbolo, se socialismo o qualche ibrido di socialdemocrazia. In ogni caso solo dei ruderi tipo i nouveaux possono pensare che il socialismo sia quel che è l’universo per la Bibbia: il fiat d’una volontà divina, in ogni tempo (ammesso che si riesca a realizzare il socialismo prima che l’imperialismo distrugga il mondo) vi sarà lotta di classe, e comunque conflitto fra vecchio e nuovo,  così come in ogni tempo i cicli biologici (anche dopo che fossimo tutti socialisti) continueranno ad avvicendare una generazione all’altra attraverso la morte.
Proprio questa è la ricchezza del socialismo rispetto alla miseria capitalistica, e cioè la volontà di assecondare il continuo rinnovamento di tutte le cose, per cui sempre viene il momento che una cosa va spazzata via, anche se si identifica con i giorni della Comune, la Rivoluzione d’Ottobre, la Lunga Marcia. Solo chi mira alla perpetuazione del dominio dell’uomo sull’uomo, imbalsama il passato, per farne il proprio feticcio di legittimazione.
Per far comprendere che cosa si intende con queste parole, proviamo a raffigurarci, nei termini dell’allegoria, il ritorno alla vita delle decine di migliaia di comunardi trucidati dalla «civiltà» (che continuò nella macellazione finché l’aria non fu cosi satura di lezzo cadaverico, da far temere un’epidemia), e simuliamo che ci dicano: «siamo qui, pronti a riprendere la lotta contro gli stessi nemici di ieri, oggi ancora più pericolosi perché mischiati con partiti che si richiamano a Marx.» Ebbene qual’è la nostra risposta? «Grazie, compagni, diremmo loro. Sappiamo che nessuno vi potrà uguagliare nella vostra fattiva volontà di cambiare il mondo; ma se questo nostro ‘mondo, non ce lo cambiamo noi, che ci servirebbe il vostro aiuto? Bell’esempio che daremmo ai nostri figli, i quali a loro volta dovranno rinnovare tutto, anche se a noi non andrà bene. Come ogni giorno ha la sua luce per poter far maturare i frutti della terra, così ogni giorno deve avere il proprio impegno per la vittoria del nuovo sul vecchio, per non trasformarsi in cosa, che tale resta anche se ammantata da una bandiera rossa.»
È in questo spirito che viene pubblicata in Italia questa cronaca della Comune. Il primo modello (la pura cronaca) ha veduto luce in Francia per iniziativa di Paule Saconnet. Per l’autrice ebbe molta importanza rilevare la partecipazione femminile all’epopea comunarda.
“Una gran cosa, convenimmo, specie in tempi come i nostri, nei quali troviamo tanto femminismo inficiato dalle bubbole borghesi sulla non violenza (per realizzare la quale la borghesia dovrebbe suicidarsi). Ci sembra però che si dovrebbe andare più in là: proporre la Comune come spunto per una riflessione sulla lotta di classe ieri e oggi”. Paule ha capito che cosa intendevano dire, e ci ha consentito di collocare il suo libro all’interno di un “grandangolare” che inquadri, oltre le gesta dei comunardi (da lei annotate giorno per giorno), anche l’atteggiamento dei loro contemporanei e quello dei nostri; quest’ultimo però non già rispetto, alla Comune, ma si “teppisti” di oggi. Non era la Comune, per la cultura di ieri, la stessa teppa (nicchia spirituale per altro d’un Courbet) che per la cultura di oggi (che simula di non sapere che Courbet fu un comunardo (1) ) è chiunque rifiuti i suoi “valori”? Per averne la conferma, basta leggere i giudizi da noi riportati nel libro, e che abbiamo tratti, nella quasi totalità, dall’attuale stampa-democratica, progressista, quando non addirittura del regno cui si accennava testè, contraddistinto da falce e martello. Se no, se l’avessimo attinta a fonti apertamente reazionarie, che cultura sarebbe? Cultura padronale di ieri, sarebbe, e non di oggi, quando il padrone finanzia prevalentemente stampa favorevole al ‘ ‘ compromesso’ ’ , notoriamente fecondo di “elementi di socialismo”.
Quale “uomo di cultura” contemporaneo ‘ ‘rivelerà” mai quanto si sia “incanaglito” Courbet volendo produrre per la teppa anzichè per i galantuomini? Accettò l’elezione a delegato della Comune (qualcosa di incomparabilmente più teppistico dell’Università di Roma del ’77), e fu lui a proporre di gettare nella polvere il simbolo del militarismo eretto a place Vendème. Per questo, quando la “civiltà” è finalmente rientrata a Parigi, è stato imprigionato, tenuto dentro per dieci mesi, o condannato infine a una multa di 300.000 franchi (cifra. che avrebbe messo in imbarazzo lo stesso Conte di Montecristo) per le spese di ricostruzione della colonna. Non potè pagare, e allora il governo, non potendo continuare a tenere un Courbet fra i teppisti, gli commutò la pena in perenne esilio. E Courbet scelse la Svizzera.
Roma 18 ottobre 1977
(1) Nel Dizionario Enciclopedico Treccani, alla voce Courbet ‘Gustave, si legge: «Ornans 1819 ,— Le Tour‘ de Peilz 1877. Tra i maggiori pittori francesi del sec. XiX l…) diede vita al movimento realista (…l. Nel 1870 partecipò con passione ai moti della Comune; dovette perciò (l) rifugiarsi in Svizzera, dove morì…». Un pò più spregiudicato della Treccani, Maurizio Calvesi scrive di Courbet a proposito delle sue scelte Spolitiche: «Patì la galera dopo la Comune del 1871. Lanciava stralialla borghesia‘ (…) e si proponeva-dì indirizzare la propria arte ai poveri e alla ”canaglia, (“il faut encanailler l’art”. (Corriere. della Sera 17 ottobre 21977)

dal numero 1 de “I Volsci”